Ricordi della VBV
VBV ELICA D’ORO
In occasione di un incontro al Caffè della Versiliana, su cui si ricordava l’inizio e la fine della regata motonautica VBV, ero stato contattato da Muzio Scacciati, quale direttore sportivo del Club Nautico Versilia, perché partecipassi, quale delegato del Club, come il più anziano fra coloro che avevano vissuto la manifestazione, per cui, accettando fui costretto a ripercorrere, sul filo della memoria, le labili tracce dei ricordi e man mano che fluivano prendevo appunti.
Nel 1962 ebbe inizio la storica avventura della regata Viareggio Bastia Viareggio, nata da un’idea dell’allora Presidente Franz Furrer. Costui era un uomo che aveva viaggiato molto e che aveva una consuetudine con l’America e con la nautica. Era proprietario di barche a motore, costruite su progetti americani innovativi e con scafi di forma particolare, con una prua affilata ed alta sull’acqua la cui rastrematura arrivava a circa due terzi della lunghezza della chiglia. Era anche un uomo che aveva interessi e contatti con il mondo imprenditoriale nazionale e internazionale e appassionato di mare ideò una regata motonautica fra due punti strategici del Mediterraneo, come già avveniva in Usa da qualche anno ed in GB da uno, eventi a cui aveva personalmente assistito. Infatti appena rientrato in Italia dal Vermont dove aveva interessi economici, per l’acquisto del marmo, aiutato dai soci del giovane e dinamico Club Nautico Versilia, si mise all’opera, per dare forma all’idea di ripetere ciò che aveva visto.
All’epoca non esistevano da noi barche offshore come le intendiamo oggi, ma solo recenti imbarcazioni da diporto, costruite in legno da cantieri molto famosi, soprattutto italiani. Fra i molti, i più accreditati erano quelli prodotti da Baglietto, da Picchiotti e da Benetti, anche se quest’ultimo non ebbe mai barche presenti al via della regata. Fu pensato quindi di organizzare una gara a livello socio-familiare, anche se gli inviti furono estesi a tutti i cantieri del settore e ai club nautici, con una partenza da Viareggio, una sosta a Bastia e il ritorno il giorno dopo. La cosa interessò molto anche i Corsi perché intravidero la possibilità di farsi conoscere e di pubblicizzare le loro bellezze naturali, all’epoca sconosciute ai più.
Purtroppo le condizioni meteo non favorevoli del 14-07-1962, anche e specialmente nel secondo giorno di gara sul ritorno, con mare in poppa misero a dura prova scafi ed equipaggi: molti subirono danni e alcune mogli scesero dalle barche in evidente stato di choc. All’andata infatti avevano avuto mare fra il traverso e la prora con colpi che avevano squinternato cucine e cassetti, nonché l’integrità fisica dei partecipanti, del tutto non usi a simili performance, e nel secondo giorno il mare al traverso di poppa aveva messo in subbuglio parecchi stomaci.
L’esperimento aveva suscitato tanto entusiasmo, ma la realtà del mare aveva portato alla necessità di rivedere il progetto per il futuro.
Franz Furrer, che ho avuto la fortuna di frequentare quotidianamente fino alla sua morte avvenuta nel 1983, non era uomo da demordere e pensò quindi, avendo rotto il ghiaccio, di creare un evento come quelli che già esistevano a cui aveva assistito all’estero e cioè una vera gara motonautica di livello internazionale, lanciando il guanto di sfida ai concorrenti esteri.

Per capire di cosa stiamo parlando, e cioè degli albori della nautica mondiale, ed italiana in particolare e delle difficoltà che le barche da crociera avevano incontrato in quel primo tragitto, occorre fare alcuni riferimenti sui mezzi marini dell’epoca.
In pratica gli italiani, terminata la ricostruzione del dopo la guerra, avevano scoperto il piacere di andare in automobile, grazie ad alcuni modelli ultra popolari, come la Fiat 600 e la Fiat 500, e i più abbienti fra loro si stavano rivolgendo alla nautica.
Ma cosa offriva il mercato? le barche a motore che solcavano il mare erano per di più barche da lavoro, gozzi, menaite e poco altro, del tutto inadatte ad invogliare i nuovi ricchi. Chi aveva tradizioni nautiche da Belle Époque, per censo e nobiltà, si rifaceva ancora ai fasti della vela. Lo yacht a motore era rappresentato da alcune vedette militari, per lo più inglesi, riconvertite, ma di costo di acquisto e manutenzione riservate a classi ultra ricche; gli altri yacht erano esclusivamente a vela, ma la loro commercializzazione era frenata da molti fattori: il primo erano tutte barche in legno artigianali, la cui produzione richiedeva anche un anno o due di lavoro, quindi costose e con tempi biblici per averle; secondo, per la loro conduzione occorreva un brevetto nautico, che si conseguiva con un’esame molto difficile e che solo i proprietari di una barca potevano sostenere, quindi prima bisognava acquistare uno yacht e poi dare l’esame; la conduzione per la navigazione a vela imponeva, infatti, una approfondita conoscenza dell’arte marinara, impossibile da acquisire in poco tempo.
Molti appassionati che non si potevano permettere l’acquisto di uno yacht a vela ricorrevano a un sotterfugio.
La legge permetteva ad una barca, sotto il guidone di un Club, e con tessera di socio della Lega Navale o della FIV di condurre barche a vela, anche di terzi, in regata, in allenamento ed in trasferimento di regata, praticamente sempre! Io fui uno di quelli che ne fece uso, fino al momento del sospirato acquisto.
Comunque erano tutti elementi che concorrevano a scoraggiare i possibili acquirenti del nord. C’era però un mercato di imbarcazioni a motore, che si era via via sviluppato in Lombardia nei grandi laghi alpini, Como e Garda soprattutto, che erano state utilizzate per raggiungere le ville o i piccoli paesini rivieraschi. Ciò fece si che cantieri come Riva o Timossi per citarne due, incominciarono a vendere i loro motoscafi ai commendatori Lombardi e Piemontesi che li trasferirono al mare. Questi motoscafi avevano delle caratteristiche di lusso, perché costruiti con legni pregiati a vernice lucida come violini, comodi sedili di tipo a divano come le auto e che potevano diventare prendisole, e, soprattutto, erano simili per concezione ed uso agli spider dell’epoca: era facile vedere arrivare un’Aurelia Sport condotta da un distinto signore con ragazza e salire su un Riva che presentava un sistema di conduzione molto simile.
Però, c’era un però! I primi esemplari, specialmente di piccoli cantieri sconosciuti, che giunsero nelle varie località marine, che incominciavano a sorgere qua e là con vocazione nautico-turistica, sia liguri che toscane, erano del tutto inadatti ad essere impiegati in mare. Vuoi perché sui laghi usavano spesso e volentieri acciai che, in ambiente marino, arrivavano presto alla ruggine e poi alla corrosione, vuoi perché non adoperavano antivegetativi, sia sugli scafi e soprattutto sulle eliche, vuoi perché la componentistica era di derivazione automobilistica, con tutti i problemi del caso e cioè mancanza assoluta di resistenza alla umida salsedine, che mieteva vittime illustri.
Senza parlare del fatto che le carene erano pensate per le onde del lago, corte e basse e per brevissime tratte di acqua. Assolutamente inadatti per le navigazioni marittime con onde alte, anche sei metri, e sulle lunghe distanze. Erano inoltre alimentati con motori a benzina di derivazione automobilistica e moltissime furono le vittime di incendi al momento dell’avviamento del motore. Infatti, stando sotto il sole i vapori di benzina non adeguatamente intercettati, riempivano il vano motore, completamente chiuso per proteggere le componenti dall’acqua, e, appena il motorino di avviamento incominciava a girare per la messa in moto del motore, una scintilla innescava lo scoppio dei vapori saturi e un episodio simile, anche se di poca gravità si verificò anche nello specchio d’acqua del CNV, rimanendo ustionato il nostromo.
Mille e mille erano i difetti di quei primi tentativi nautici, anche di quei prodotti costruiti in seguito dai cantieri marittimi. Non era infrequente che all’improvviso si spegnesse un motore perché la scatola dei fusibili con i colpi di mare si era aperta e tutti i fusibili giacevano scomposti nell’acqua, in fondo alla sentita. Ciò successe anche al nostro motoscafo cabinato Chaman, che fra i vari difetti aveva una scatola di fusibili del 1100 Fiat, che una volta, su un colpo duro del mare, si aprì scagliando tutti i ponticelli in sentina, oltre ad avere un motore da corsa assolutamente inadatto ad un duro uso in mare, con poca potenza in basso.
Si salvavano solo quei prodotti costruiti dai grandi cantieri, come appunto Benetti, Picchiotti e Baglietto ecc., ma avevano il grave difetto di un costo di acquisto assolutamente elevato, date anche le loro dimensioni che partivano, per il Giglio di Picchiotti da 10 metri o l’Elba del Cantiere BAglietto poco più grande. Inoltre imponevano di fatto la necessità di un marinaio a bordo con i relativi costi.
Ricordo un episodio accaduto direttamente a noi nel 1960, con lo Chaman al solo fine di far capire alle nuove generazioni che si trattava di vero pionierismo nautico, e che poteva avere gravi conseguenze.
Per farla breve, una domenica mattina mio padre nel luglio del 1960 telefonò al Club perché preparassero la barca con il pieno di combustibile. Era uno scafo di legno, cabinato di poco più di 8 metri, con scafo verniciato bianco e, a coppale, per il resto, con un motore BPM Vulcano 270 Hp a benzina, carburatore doppio corpo, in pratica un motore nato sul lago di Garda, con due serbatoi di benzina comunicanti. di circa150 litri ognuno. Mio padre aveva deciso di andare all’Isola d’Elba in tandem con un Acquarama di Riva.
Partimmo da Viareggio alle dieci circa, con una “splendida carta stradale” del Touring Club Italiano e una improbabile bussola, non compensata: nessuno nel nostro giro aveva idea che esistessero le carte nautiche!
Tutto andò bene fino al traverso di Baratti, visto che ci eravamo limitati a seguire il Riva e l’andamento della costa, sennonché, giunti nel punto di dover affrontare il canale di Piombino, la barca si arrestò con il motore al minimo!!! Era successo che al distributore avevano riempito un serbatoio, ma non l’altro perché il tubo di collegamento fra i due era molto piccolo rispetto alla portata della pompa e una bolla d’aria aveva fatto si che il secondo fosse rimasto pressoché vuoto!!
Avevamo due stagne di benzina da 20 litri ciascuna, ma non un imbuto, inoltre il bocchettone di imbarco era molto in basso a pagliolo e rendeva quasi impossibile manovrare la stagna, il mare era leggermente increspato e, dulcis in fundo, l’operazione era di mia spettanza, perché mio padre era invalido, ed io avevo solo 13 anni. Fu come fu, che circa la metà del carburante andò direttamente nella sentina, prima di sacrificare la carta geografica come imbuto, mentre mia madre fumava per calmarsi i nervi!
Nel frattempo il motoscafo, insieme al quale, avevamo navigato, ci aveva mollato al nostro destino: nessuno aveva una radio VHF, all’epoca inesistenti sul mercato italiano, né alcun altro mezzo di collegamento e neppure i razzi che successivamente fecero parte della misure di sicurezza a partire dalla modifica del codice della navigazione per il turismo nautico emanato solo nel 1971, circa 11 anni dopo!!!
Quando fu esalato anche l’ultimo spruzzo di benzina dalla seconda stagna, cercammo di ripartire. La barca era dotata di un aggeggio, che poi scopri chiamarsi Autopuls, che riempiva i due carburatori doppio corpo del vorace BPM e, dal minimo, con la marcia ingranata e la manetta del gas aperta, la barca partiva a tutta velocità, poi dopo circa un miglio, all’epoca dicevamo due chilometri, si arrestava di nuovo con il motore al minimo, pompava di nuovo la benzina e ripartiva a schizzo. Al fine arrivammo a Porto Ferraio, visto che prima di sacrificare la carta, mi ero impresso nella mente l’andamento della costa. Il risultato fu che quando alle 16,30 del pomeriggio, alla stratosferica velocità media di 13 nodi, arrivammo davanti all’Hotel Massimo, dove era ormeggiato l’altro motoscafo, mio padre decise di fare il più facile accosto di prua (non ha mai imparato a fare l’accosto di poppa), e …. fu a quel momento che la barca, secondo me ridendo sotto i baffi, schizzò in avanti, urtò con decisione la banchina e mi scaraventò direttamente nella strada antistante, io che ero a prua con la gaffa per accostare, mentre mio padre, che era in piedi al timone, cadde all’indietro sul sedile a cui mia madre era aggrappata. Lo strapuntino si ruppe e i due crollarono a terra nel pozzetto. Ecco più o meno quello era il modo comune a molti nuovi marinai domenicali di viaggiare.
Fu li che decisi di diventare un marinaio vero.
Anche in precedenza avevamo avuto degli inconvenienti, ma tutti dovuti alla nostra insipienza. Ricordo in particolare che mio padre aveva deciso di andare a mangiare sul fiume Arno e, a bordo della sua prima barca, un semicabinato in compensato marino incrociato, una novità assoluta proveniente dall’America, lungo 5,50 con un fuoribordo Johnson 40 HP, messa in moto manuale, salpammo da Viareggio e dopo una ottima navigazione, la barca era molto marina, ma all’epoca non lo sapevamo, entrammo nel fiume e lo risalimmo fino ad un ristorante di legno, posto sulla riva sinistra del fiume, dove non c’era un imbarcadero, ma una passerella tutta intorno al corpo centrale e, visto che con la marcia indietro non c’era confidenza, mio padre si presentò di prua ed io, dodicenne, seduto alla sua estremità, ero pronto ad afferrarmi alla balaustra.
La barca si chiamava San Antonio e forse fu il Santo a salvarmi la vita, infatti mio padre aveva troppa velocità e il motoscafo non si fermò nei modi e tempi giusti, la prua della barca si infilò sotto la passerella ed io rimasi con il collo schiacciato fra la passerella e la tuga!!! Un’altra volta io ero reduce da una sinusite che mi aveva tenuto bloccato in casa per circa venti giorni, e mio padre decise di andare con il nuovo motoscafo Charan a Bocca di Serchio, perché voleva portare mio cugino, di un paio di anni meno di me e che veniva dalla Scozia, in barca. Poiché voleva fare anche il bagno, decise di portare la mia barca di 2,45 m. come tender, lo aveva visto fare a motoscafi due volte il nostro, e così caricai con l’aiuto del nostromo del club, Salvatore, la mia barchetta nel pozzetto dello Chaman e arrivammo al Serchio. Negli anni precedenti eravamo sempre entrati nel fiume, grazie al ridottissimo pescaggio del San Antonio, ma con questo mare non era consigliabile. Purtroppo c’era un pò d’onda e sconsigliai, sia di fermarci, sia di mettere in mare il tender, ma con scarsi risultati. Andai quindi a prora a dare l’ancora e mentre aspettavo di verificare che l’ancora avesse preso, mio padre, con mio cugino, decisero di mettere in mare la barchetta calandola da poppa. Questo fece si che la barchetta si presentasse di traverso al mare ed un’onda assassina passò sotto la chiglia dello Chaman ed investì il mio guscio di noce rovesciandolo. Lavorai due ore per raddrizzare e svuotare la mia adorata barchetta e la giornata finì nel momento in cui riuscimmo a issarla a bordo dalla murata, prua al mare!
Tornando con la mente alla regata, occorre ricordare che il cambio di indirizzo, da gara fra gentleman e soci del Club Nautico Versilia, a gara di livello internazionale per barche da corsa, imponeva una modifica del tracciato, eliminando la possibilità della sosta a Bastia, tanto voluta dagli organizzatori corsi. Infatti solo per due anni il tracciato si svolse in due tratte in giorni consecutivi, ma il regolamento internazionale, voluto da Americani e Inglesi, prevedeva un’unica tappa di almeno150 miglia, quindi un’andata e ritorno senza stop. Questo aspetto di “interruzione di socializzazione” con Bastia fu superato in seguito con la creazione di un’altra regata sempre per merito del CNV, stavolta velica, chiamata Vela d’Oro, che permise la sosta degli equipaggi e a cui ho partecipato anch’io più volte con barche mie o di armatori amici sempre in funzione di navigatore.
Io però ho un ricordo meraviglioso della manifestazione Elica d’Oro del 1985, quando per defezione della solita barca del socio del Club, che ricopriva da sempre l’incarico di boa di ritorno a Bastia, fummo chiamati a sostituirla. All’epoca avevamo il Todomodo, un trawler di 17 metri con due Caterpillar da 220 HP l’uno, 3000 litri di gasolio e 1000 litri d’acqua, generatore, salone e cucina all’americana, wc e plancia separata, tre cabine di cui due matrimoniali ed una a 4 letti, quattro bagni, sala macchina in cui si stendevano i lenzuoli lavati nella lavatrice, Fly con doppia timoniera, radar, FHF, BLU e udite udite un Loran. Gli americani avevano appena inaugurato il sistema GPS riservato solo ai loro mezzi militari e avevano liberalizzato il sistema di navigazione Loran, basato per il Mediterraneo da tre radio fari, posti agli estremi nord, sud e est, che emettevano una frequenza diversa fra loro e sfasata da qualche millesimo di secondo. Dalla diversa captazione temporale dei segnali, l’apparecchio di bordo calcolava la posizione in latitudine e longitudine.
Un lusso che non si poteva neppure immaginare solo l’anno precedente. Prima dell’avvento del Loran, infatti, si navigava (coloro che sapevano!!!) Molti per andare in Corsica costeggiavano fino a Livorno e poi si mettevano sulla scia del Corsica Ferry, altri facendo il punto stimato ogni ora, per avere sempre contezza di dove erano, mediante l’uso del contamiglia e della bussola compensata. Infatti se succede qualcosa per la quale hai bisogno di soccorso, anche se hai la radio e oggi il telefono satellitare devi pure dire, a chi riceve la chiamata di soccorso, dove sei! Devo osservare, però, che oggi oltre ai plotter che ti forniscono ogni informazione, fra non molto tutte le barche saranno munite dell’IMO e verranno rintracciate autonomamente fino all’affondamento completo dell’imbarcazione, anche se è previsto che il trasmettitore sia sganciabile e impermeabile all’acqua.
Ricordo che nella prima traversata per la Corsica con il Loran a disposizione, io e mio fratello ci divertivamo a fare il punto stimato e poi a verificare, sia l’esattezza dei nostri calcoli, sia l’affidabilità del Loran, perché la rifrazione notturna, che si crea per la scambio termico, poteva in casi eccezionali, interferire con l’esattezza della localizzazione. Tempo dopo segnavamo sulla carta solo l’aggiornamento che ci forniva il Loran. Quell’anno (1986) eravamo partiti in cinque, alla volta di Bastia, io, mio padre, mio fratello, la donna di mio padre che aveva a quel tempo, e un amico e collega storico, senza un braccio in funzione di cuoco, e, il giorno successivo, avremmo preso a bordo i cronometristi ufficiali.
Quando arrivammo a Bastia nel primo pomeriggio, fummo fatti ormeggiare comodamente all’inglese nel Porto Nuovo, ora esclusivamente commerciale, e la sera invitammo un folto numero di personaggi di Bastia, il Presidente del Club, il Console Onorario d’Italia, il Presidente della Camera di Commercio (uomo potentissimo), con le rispettive compagne, oltre a diversi personaggi di supporto maschili e femminili. Fu un successone! Gli ospiti andarono via all’alba quasi in lacrime per il dispiacere, anche perché una volta completato il nostro lavoro, saremmo salpati subito per Saint Florent, nostra meta solita. Fu una fatica farli sbarcare senza che nessuno cadesse in mare, data la quantità di alcol che si erano fatti fuori. Il giorno successivo, insieme ai cronometristi, ci portarono a bordo una pagina del giornale Corse Matin dove c’era la foto della nostra barca ed un articolo pieno di elogi. Verso le 14, anche l’ultimo concorrente ancora in gara era transitato e noi potevamo salpare l’ancora.
Per meglio richiamare i particolari della prima VBV, i nomi dei partecipanti e delle barche ecc. mi sono avvalso di un articolo pubblicato su Altomare Blu, a firma di Marco Bertini, scritto in occasione del 50 esimo anniversario della manifestazione, non potendomi affidare alla memoria e non avendo il tempo per fare ricerche.

““Era una calda e assolata mattina di sabato 14 luglio del 1962 e l’ultimo bollettino meteo dell’Aereonautica Militare emesso alle 9 dava vento da nord ovest di 20 nodi alla Gorgona, mare mosso sotto costa e agitato al largo. Nella bella sede del “Club Nautico Versilia” al primo piano fu prevista la direzione e l’organizzazione della gara. Nel porto di Viareggio di fronte alla banchina est darsena Europa c’era un andirivieni di persone, armatori e tecnici delle imbarcazioni iscritte alla competizione, personale addetto alla conduzione e controllo della gara stessa, oltre ai militari della Capitaneria di Porto.
Tra tutti i presenti c’era l’allora presidente del Club Nautico Franz Furrer che ascoltava perplesso dagli addetti delle condizioni meteo e chi gli chiedeva se fosse il caso di dare l’ordine per la partenza della gara.””
““La parola offshore Franz Furrer l’aveva sentita per la prima volta nel 1961 mentre si trovava negli Stati Uniti per un suo approfondimento in tema di carene in un momento di relax a bordo di un battello che solcava lentamente le acque del fiume Hudson per un giro intorno all’isola di Manhattan a New York. Furrer notò quella che inequivocabilmente doveva essere una gara fra motor yacht e informatosi ne ebbe la conferma. Queste imbarcazioni, venivano da Long Island ed il percorso si sviluppava su un periplo del principale luogo di vacanze dei newyorkesi.””
”Griffith, il vincitore di quella edizione, era insieme all’amico Dick Bertram sul già leggendario “Glass Moppie”, un 31’ in vetroresina, il primo deep vee e prima carena a V profondo ideata da Raymond Hunt. Insomma, una gara di primati assoluti di questo sport, quella a cui assistette Furrer. Era il 12 giugno del 1961 e purtroppo fu anche l’ultima vittoria di Griffith prima che un cancro mettesse fine ad una vera vita vissuta pericolosamente.”

Furrer, che era un uomo curioso, non dei fatti degli altri, ma di ciò che i suoi sensi erano in grado di percepire ed uno sperimentatore, qualità che aveva sempre travasato nella sua passione di pittore, cavalcò subito l’onda del nuovo interesse verso la nascente nautica da diporto.
““In seno al Club Nautico Versilia, Furrer trovò subito chi lo appoggiò con entusiasmo e tra tanti spiccava per passione Federigo Landucci. Tra i cantieri nazionali più in auge in quel momento trovò consensi dai laziali Italcraft di Sergio Sonnino Sorisio e Navaltecnica di Attilio Petroni ed il geniale giovane progettista italo-britannico Renato “Sonny” Levi. Quest’ultimi due avevano partecipato quello stesso 19 agosto 1961 in Inghilterra, alla prima edizione della Cowes Torquay, nonché prima gara offshore europea, su una barca progettata dallo stesso Levi e costruita nei cantieri Navaltecnica di Anzio. “A’ Speranziella”, così si chiamava la prima barca offshore italiana, era un 8 metri in lamellare spinto da una coppia di motori americani a benzina Crusader di derivazione automobilistica, che si rese subito protagonista durante la gara prima di cedere il passo a causa di problemi meccanici e arrivando comunque sesta a Torquay su 27 partenti, dopo 156 miglia marine e mare agitato.
Furrer trovò appoggio anche dalla stampa specializzata sportiva ed in particolare dalla nuova rivista “Nautica” di Vincenzo Zaccagnino che diverrà pari passo con la Viareggio Bastia Viareggio, la più autorevole del settore nautico, con reportage prima e dopo la gara, insieme al quotidiano sportivo “Corriere dello Sport”.””
La formula scelta fu quella in base alle disponibilità reali dei mezzi che avrebbero potuto partecipare ad una simile competizione, infatti in Italia, contrariamente a quello che accade in America, dove tutto ciò che è veloce può partecipare, si è sempre seguita, per ogni attività, l’idea della sicurezza e della conformità alle leggi, un pò in questo più simile al concetto inglese che non al liberissimo concetto yankee. Infatti le barche erano di serie, con ogni confort a bordo per i tempi. Del resto anche volendo in Italia non esisteva nessuna barca pensata per la sola velocità per la navigazione d’altura.
Come al solito, il più ricco vince e il futuro regolamento internazionale della UIM si accodò al volere d’oltre oceano e tutte le gare off shore, compresa la VBV, videro sparire le barche di serie e arrivare barche pensate solo ed esclusivamente per la velocità. Del resto la durata di una gara su una distanza media di 150 miglia alle nuove velocità espresse dai mezzi, non necessitava, di gabinetti, riserve d’acqua, cucine e fornelli, imponendo di fatto di portare la VBV ad un percorso unico nella stessa giornata, anche se veniva meno lo spirito dei gentleman drive americani, che annoiati davanti ad un Martini si erano sfidati con le loro barche di serie, e che avevano dato inizio alle danze.
Fu così che fu eliminata la sosta a Bastia, nella quale gli equipaggi per regolamento vivevano a bordo assistiti dai confort dell’epoca!
La regolarizzazione di queste gare sotto un unica regia internazionale della UIM impose come detto la teoria americana anche se, soprattutto in Inghilterra, continuarono a privilegiare il loro personale e condivisibile modo di intendere l’offshore. Non a caso a Bastia la sosta prevedeva il pernottamento a bordo delle varie imbarcazioni partecipanti a dimostrare proprio il carattere “di serie” di queste.
Nella prima edizione gli iscritti era ben 24, ma come si sa il diavolo ci mette sempre la coda e il dio Nettuno gli dette una mano mandando un bel vento fresco da NW. Qui devo ricorrere a piene mani al resoconto del cinquantennale di Marco Bertini, facendo però una precisazione tecnica: il vento di maestrale viene da NW, e quindi le barche lo avrebbero dovuto avere fra il traverso e la poppa, ma la conformazione dell’Isola Corsa, specialmente alla Bocche, e di quelle dell’arcipelago toscano fanno si che il vento pur originario da NW, giri fino a SW e quindi con il mare e vento in prora.
““Quella mattina di sabato Furrer con il foglio del bollettino meteo in mano pensò comunque allo spirito USA di quelle gare e alla Cowes-Torquay dell’anno prima che si corse con un mare decisamente mosso. L’Offshore significava anche e soprattutto questo, ma date le condizioni del mare nessuno sembrava realmente intenzionato a mettere la prua della propria imbarcazione oltre l’imboccatura del porto e dei 24 iscritti, erano attraccati nella banchina davanti alla sede del Club Nautico Versilia solo 19 imbarcazioni. Erano tutti cabinati di varie dimensioni come i grossi motor yacht Picchiotti, che avevano ed hanno ancora oggi il cantieri proprio alle spalle del Club dove durante la guerra vi costruivano i veloci MAS su progetto Baglietto. Nel dettaglio Picchiotti era presente con un 47’ della serie “Giannutri” ed un più vecchio “Super Versilia” di 55’, entrambi carene dislocanti e motorizzati con dei pesanti diesel americani.””
“”C’erano un paio di cabinati di fabbricazione americana, un Cris Craft di 32’ con motori a benzina del mecenate dei jeans made in Italy, i Rifle e un Trojan 3400 Express Cruiser.””
“”Poi tutta schierata la squadra Italcraft con 4 barche con le nuove carene tipo Hunt per i due nuovi X-1 di 26’ e due più grossi Sea Skiff di 28’ tutti motorizzati con dei Chrysler a benzina.

Infine il gioiello di Navaltecnica, la rossa “A’Speranziella” simile al prototipo del 1961 ma ora di 30’ spinto sempre da una coppia di Crusader 8V con sistema di trasmissione V-drive ad assale elica””
“”La gara era in forse e Furrer sapeva che se alla prima edizione avesse fallito difficilmente ci sarebbe stata una seconda possibilità. Mentre stava pensando sul da farsi un suo collaboratore gli fa presente che giù nell’ingresso del Club, davanti alla segreteria c’è un concorrente che freme per parlargli. Furrer accoglie la richiesta e dopo pochi attimi gli si presenta un minuto, piccolo biondo con delle carte nautiche in mano che gli chiede il perché ancora non si usciva con le barche.
E’ Vincenzo Balestrieri, avvocato romano ed imprenditore edile, alla sua prima esperienza in una gara offshore ed iscritto con il suo Cohete un “Super Versilia” di Picchiotti, un gigante motor yacht di quasi 17 metri con un avanzato sistema radar montato sopra la contro plancia.
Furrer inizia a spiegargli le ragioni ma Balestrieri lo interrompe bruscamente affermando che lui vuol partire e se altri non lo vogliono fare sono problemi loro.
Furrer pensa che se almeno un concorrente prenderà il via la gara sarà valida a tutti gli effetti e quindi salva ed interpella il Comandante della Capitaneria di Porto che lo rassicura ritenendo le barche iscritte idonee ad affrontare le condizioni di mare in essere. Contattati alcuni proprietari di cantieri essi confermano la disponibilità a correre con un ritardo di due ore sul tempo di partenza previsto. La gara ha finalmente inizio alle dodici in punto con nove imbarcazioni sulle diciannove presenti in porto.””
Il Comandante Petroni alla Guida di A’ Speranzella, che aveva imbarcato 2000 litri, una quantità enorme per l’epoca, di benzina Avio, per un motoscafo di nove metri, nella tratta Viareggio Gorgona, dove il mare era agitato, superava il Giannutri del cantiere Picchiotti e girava primo il traguardo di Bastia, dopo quasi tre ore di gara a 26,88 nodi. Purtroppo o per fortuna per la fama internazionale della VBV di vera gara Offshore, il vento di maestrale diventerà una costante che in tre edizioni impedirà lo svolgimento della gara nella sue interezza, limitandosi il percorso alla boa di Gorgona, perché dopo il mare di lì diventa “acido”. Ricordo che alcune volte la partenza non fu data dalla barca Boa, posta fuori del porto ed al traverso del fanale Verde, che non avrebbe potuto rimanere ferma all’ancora, ma bensì dalla testata del moletto di soprattutto.
““Al traverso della Gorgona l’altro X-1 in gara, il Bonifacio II pilotato dal costruttore Sergio Sonnino Sorisio, urta un relitto galleggiante e inizia ad imbarcare acqua in sentina costringendo l’equipaggio a lanciare i segnali di soccorso subito notati dal sopraggiungente Balestrieri che si accosta all’imbarcazione e la prende al traino invertendo la rotta per Viareggio. Sarà la prima di una serie di atti di cavalleria di cui si renderà protagonista il futuro bi-campione del mondo nella sua lunga ed illustre carriera offshore che lo vedrà vincitore fra le altre di quattro edizioni della VBV. Il Campione romano si è spento lo scorso 30 marzo.””
“”I relitti galleggianti in Gorgona saranno un altra caratteristica delle edizioni della VBV e nel 1968 costringerà il Budda Special del costruttore Salvatore Gagliotta a spiaggiarla sull’isola-carcere. Nel 1988 vedrà affondare, sempre per lo stesso motivo, il celebre Pinot di Pinot ex Red Iveco che fu il primo catamarano a vincere questa gara nel 1983.””

‘A Speranziella arrivava prima a Viareggio con una velocità media superiore a quella della altre concorrenti a circa 32 nodi di media ed un tempo totale di percorrenza di quasi mezz’ora più breve.
Amicizia, l’Italcraft X-1 di Sonnino terzo ad oltre un’ora da Petroni nell’andata, senza errori ed evidentemente a suo agio con il mare di poppa arrivava secondo a soli 3′ e 37” a poco più di 31 nodi di media.”
““Intanto la seconda edizione fu subito gara internazionale grazie alla partecipazione di Jim Wynne, uno dei grandi protagonisti sia nella tecnica che nell’agonismo. Wynne parteciperà con un Settimo Velo di 24’ che montava i piedi poppieri da lui creati, anche se è più giusto dire “perfezionati e costruiti dal licenziatario Volvo Penta””.
Nel 1964 arriva un altro grande protagonista dell’era pionieristica dell’offshore, Richard “Dick” Bertram che seppe intuire le potenzialità di una carena progettata da Raymond Hunt, con la quale aveva già avuto successi fino dal 1961, con i pattini disposti longitudinalmente alla carena e prestazioni nautiche ben superiori alle carene plananti in uso fino ai primi anni sessanta. Bertram collaudava queste sue carene, divenuti poi i fisherman più famosi al mondo, proprio partecipando e soprattutto vincendo le gare offshore come la Viareggio Bastia Viareggio. Arrivarono altri protagonisti delle competizioni che poi diverranno pietre miliari non solo dello sport, ma del mondo nautico internazionale.
“”A Levi,Wynne e Bertram si aggiunsero così all’albo d’oro della gara Don Aronow pilota e costruttore dei suoi Donzi, Magnum e Cigarette, Don Shead progettista degli Enfield del campione inglese Sopwith, ma anche dei vari CUV monocarena che vinceranno titoli fra la fine degli anni settanta e la metà degli ottanta. Poi arrivò Fabio Buzzi, prima con i suoi piccoli catamarani costruiti dalla C&B che dominavano tutte le sottoclassi della C3, fino ai mostri frantuma record della classe regina, la 1, con il Red Iveco, Yellow Iveco, poi il Mededil dei napoletani Gioffredi e Di Meglio che vinceva nella classe 3 come nella 1 contro catamarani americani che avevano il doppio della potenza degli Aifo diesel che montava, oppure come il Cesa 1882 sia nella versione monocarena che catamarano.””
Come già detto, i soldi vincono sempre e gli sponsor attirati dalla notorietà della VBV e delle gare simili, cominciarono a prediligere quelle che si svolgevano lungo costa, alla faccia dell’Offshore, perché permettevano ad un pubblico incompetente, ma vittima della pubblicità sempre più incalzante, di potere vedere le barche e le scritte degli sponsor sulle fiancate.
Cosa poteva importare, infatti, a Pinot di Pinot che la barca sponsorizzata fosse prima in alto mare, dove nessuno la vedeva? Per avere un ritorno pubblicitario la barca doveva girare per prima la boa di disimpegno dove il pubblico poteva vederla, sentire il rumore assordante della potenza di mille e passa cavalli e rimanere impressionato. Se poi non finiva la gara non importava a nessuno, il grande pubblico non lo avrebbe mai saputo.
Poi la velocità, sbronza propriamente americana e che ben si adattava ai percorsi costieri, prima di tutto impose l’arrivo, nel ventennio successivo dei catamarani. Per questa ordalia velocistica e costiera furono sacrificate anche le antesignane delle gare, come la Miami-Nassau e la Bahams 500. Sic transit gloria mundi! L’ultima era la VBV che non morì solo e soltanto per la spinta degli sponsor, ma per comprensibili motivi ecologisti nati in Francia a cui non era facile trovare motivi di contrasto, vedendo cosa e quanto inquinavano i mezzi da corsa. Quando i Cat con i loro due/tre motori da 1600 HP partivano, acceleravano dopo una virata o quando le eliche uscivano dall’acqua, un getto di gasolio (la benzina era scomparsa da tempo non avendo tali motori da noi un mercato, vuoi per il costo, vuoi per il latente pericolo) lungo decine di metri si spargeva nero sul mare, per non parlare dell’olio quando un motore scoppiava.
Non solo la pubblicità ed il volere degli sponsor, non solo il nascente ecologismo, anche Nettuno ci si mise, forse per proteggere il suo mare, mandando nel 1993, a contrastare la VBV, unica rimasta nel suo genere nello sport, un bel libeccio che per la prima ed ultima volta impedì lo svolgersi della gara. C’è da dire che se le barche fossero state veramente offshore il mare non era certo proibitivo, ma gli esili, esasperati catamarani rischiavano ad ogni onda di volare e rovesciarsi come era già successo a Casiraghi. Nessuno dei partecipanti a vario titolo: piloti, motoristi, progettisti, cantieri e sponsor volevano rischiare la vita, l’affidabilità, il nome, la clientela e l’investimento. Erano barche idonee per esprimere velocità pura, come una attuale F1, del tutto avulsa dalla possibilità di percorrere un tracciato diverso dalla pista. Con buona pace dell’offshore, visto che quelle gare originali davano anche la dimensione della sicurezza ed affidabilità del mezzo, cosa che è venuta totalmente a mancare, e che era stato il faro che aveva illuminato il progetto di Franz Furrer e di costruttori seri che, vincendo le prime dure e reali gare Off shore, crearono con la loro passione cantieri e scafi immortali per sicurezza, affidabilità e durata come Dick Bertram per dire il più famoso, anche grazie al fatto di essere stato americano.
Dopo 32 anni consecutivi, quello che per numerose volte la VBV aveva rischiato di subire, ora non dava scampo.
Era finita un’era, un mondo si chiudeva irrimediabilmente, come era successo alla Mille Miglia in campo automobilistico. Lì fu l’incidente di De Portago che alla guida di una Ferrari volò sul pubblico facendo una carneficina, qui si prevenne qualche sciagura.
Guerrieri come Nuvolari nelle auto o come Balestrieri nei motoscafi non avevano più campo.
Anche l’esperienza endurance durò poco e così la gara, stravolta nel suo percorso tradizionale a causa di nuove leggi francesi a protezione dei grandi cetacei marini, che vietava il passaggio di gare in acque territoriali protette, si chiuse per sempre.
““Dopo aver vinto e stabilito il nuovo record della gara rientra in porto “l’Achilli Motors-Cadillac” di Domenico Achilli e Walter Brombin. Saranno gli ultimi vincitori.”
Purtroppo i miei ricordi personali si confondono fra un’edizione ed un’altra, però ricordo sempre che, per qualche strano dispetto di Nettuno, salvo forse due o tre regate, dove forse il dio del mare era distratto, queste regate motonautiche furono sempre movimentate dalle condizioni meteo.
Auguri VBV!!! perché oggi siamo alla vigilia di una nuova VBV, non più motonautica ma velica: infatti venerdì 14 luglio 2022, prenderà il via una regata di Maxi a vela che ripercorreranno la stessa rotta, in maniera ecologica e, speriamo che la neonata manifestazione abbia almeno 32 anni di futuri successi.
Certamente il Club Nautico Versilia ha fatto di tutto per mantenere viva la manifestazione, ma cosa è sempre mancato alla VBV? l’appoggio del Comune e delle istituzioni, a parte la FMI, e speriamo che questa nuova manifestazione trovi un’ulteriore stampella in ambito locale e regionale.
Ricordo, infatti, come invece la Camera di Commercio di Bastia, il Comune e tutta la cittadinanza si impegnavano con sontuosi ricevimenti all’arrivo delle imbarcazioni, accoglienza che riversarono poi su noi velisti quando la gara fu portata ad un’unica tratta e nacque la Vela D’Oro, e di cui sono stato testimone più volte.
Ogni barca partecipante prima a motore e successivamente a vela, che attraccava nel Porto vecchio di Bastia era accolto da un membro del Club locale, accompagnato da due miss che, in costume tradizionale, offrivano un cesto regalo con tutte le prelibatezze dell’Isola. Lì scoprì il dolce al Brocciu, che faccio ancora con una vecchia ricetta corsa, il così detto Fialdone.
Il Trofeo Vela d’Oro, è la seconda regata velica del dopoguerra (dopo la Giraglia) che, partendo dall’Italia, toccava le coste di un paese straniero, venne ideato alla fine degli anni sessanta dal Club Nautico Versilia, sulla spinta del Comandante Alfredo Bertacca, insieme con lo Yacht Club Livorno ed il Club Nautico Bastia, sul percorso Viareggio-Bastia-Livorno (ad anni alterni Livorno-Bastia-Viareggio) e, con poche interruzioni, si è svolto da allora fino ad oggi coinvolgendo le barche più importanti dell’alto Tirreno e del Mar Ligure e nomi famosi della Vela come Cino Ricci e Giorgio Falk.
Personalmente pur avendo partecipato a numerose edizioni, non scorderò mai quella del 1972, dove mio padre mi costrinse a partecipare, dopo nove mesi di letto per malattia. Ricordo di aver sofferto di agorafobia con tutta quell’aria, quella luce e quell’orizzonte infinito; la spossatezza che mi colpì a mezzanotte, mi impedì di sorvegliare un allegro timoniere, improvvisatosi navigatore che, da primi ci ridusse ultimi, sbagliando il radio faro di Bastia posto all’aeroporto, come il faro di Bastia sito a 20 miglia più a Nord!!! oibò, fu così che allungammo il percorso di 40 miglia. È vero che in partenza ci aveva portati in prima posizione, ma cavolo, fai il timoniere!
Di Franz Furrer ho già detto, del Cavalier Alfredo Bertacca bisogna dire che oltre che socio fondatore e consigliere del Club era titolare di un’avviata Agenzia Marittima. Era un accorto marinaio e un compagno meraviglioso. Fu lui che organizzò il primo esame per il brevetto di conduzione delle barche a vela alla Capitaneria di La Spezia dove era comandante l’Ammiraglio Fanfani di cui era buon amico personale. Gli esaminandi erano mio padre Franco Picchi, l’Avv. Marcello Luporini e la moglie Pierette, e Palagi della Ditta Dinni e Denna, oltre al sottoscritto e all’amico e coetaneo Mario Luporini.
Con il suo carattere affabile, l’educazione innata, sapeva tessere rapporti amichevoli con tutti e fu lui il tramite per coinvolgere i diffidenti Corsi ad associarsi a questa avventura. Ebbe anche modo di fare oltre che amicizie di ferro, investimenti in Corsica partecipando alla costruzione del porto di Campoloro ed era sempre a disposizione per favorire un amico o cliente che doveva recarsi nell’isola.
Federigo Landucci era un altro personaggio famosissimo in Darsena, di soprannome faceva Bugia, ma la sua simpatia e la sua schiettezza ne facevano un compagno di viaggio insuperabile: cacciatore, amante della buona tavola e del buon vino, della compagnia, dello scherzo e dello sfottò, aveva due distinte attività in darsena, una di impianti elettrici su grandi navi comprese diverse commesse militari e una di riparazione e assistenza motori GM.
Di lui si potrebbe scrivere un libro, soprattutto degli scherzi che faceva, compreso fare portare via da un sommozzatore due eliche ad una barca di un amico cliente e poi chiedere il riscatto e con il provento offrire una cena a tutti, compresa la vittima: ma due ricordi li devo sottolineare.
Ogni anno, dopo la consegna ai clienti dell’ultima barca, nei primi giorni di agosto, partiva con la sua barca, un cabinato a motore, insieme ad altri due imbarcazioni di amici e faceva in pochi giorni il periplo della Corsica arrivando come prima tappa a Macinaggio, e percorrendo poi l’intera isola in senso orario. Io l’ho incontrato più volte nell’ultima tratta e cioè quando le tre barche arrivavano da Calvi a Saint Florent. Quando arrivava il gruppo dei viareggini, il porto si animava: appena scendevano a terra erano chiamati a gran voce perché molte colonnine di corrente erano guaste per il sovraccarico e Federigo, con un paio di suoi operai, che si portava dietro come amici marinai, si metteva a riparlarle con la gioia di molti, compresa la capitaneria locale! Finito il lavoro attrezzavano dei tavoli di fortuna e cominciavano a cucinare all’aperto il pesce che avevano pescato o comprato dai pescatori. Fiumi di vino uscivano dalle cambuse delle barche vicine e qualcuno dava fuoco al volume dei primi altoparlanti di bordo scatenando decibel di musica e la cosa andava avanti per buona parte della notte. Ricordo che una volta la mia barca aveva un ormeggio di fortuna, proprio sull’imboccatura del porto e cominciò a montare il mare e rischiavo di andare in banchina, tanto che dovevo tenere il motore acceso al minimo con la marcia avanti per non sbattere la poppa in banchina. Federigo chiamò Michelone, grande marinaio, che aveva lavorato anche a bordo dell’Agneta di Giovanni Agnelli, il quale prese, da un gavone di una delle tre barche, un’immensa ancora ammiragliato di un 40 kg, se la issò su una spalla, sull’altra sistemò una cima di una sessantina di metri e mi disse: “Mi omo, ce l’hai un gommone? e insieme andammo a calare l’ancora fuori dell’imboccatura del porto. Poi disse: “Stai tranquillo, ma come senti mollare il vento molla anche la cima o nessuno potrà entrare o uscire dal porto”.
Quando c’era la VBV Federigo piazzava una batteria di radio all’ultimo piano del Club Nautico, dove attualmente c’è il ristorante e teneva le comunicazioni con le barche in corsa, tramite il VHF, con il BLU le comunicazioni con le barche appoggio distanti, comprese quelle boa in Gorgona e a Bastia, con le frequenze militari con le barche di sorveglianza e con quelle in alta frequenza con le forze aeree. Molti dati forniti dalle unità militari erano fondamentali per avere notizie reali sulle condizioni meteomar per la sicurezza dei partecipanti, pronti a rinviare la partenza o a ridurre il tracciato della corsa.
Riusciva a coprire ogni frequenza dando disposizioni, ordini, consigli a tutte le unità impegnate. E pensare che era molto sordo.
Per riferire sulla sua abilità come radiotelefonista, ricordo che eravamo con la sua barca, una ex vedetta della finanza, alla ricerca di un parà disperso in mare davanti alla Lecciona. Assieme a noi, che occupavamo il lato sinistro dello schieramento, verso il largo, partecipavano alla ricerca la vedetta modernissima dell’Esercito, una motovedetta della Capitaneria di Porto, la barca dei Carabinieri, la vedetta della Finanza, una della Polizia ed un gommone della CP verso costa in acque basse. Eravamo tutti sulla stessa linea per fare una ricerca a griglia. Il due motori della barca su cui mi trovavo, anche al minino sviluppavano una velocità di 12 nodi, perché erano senza riduttori di giri motore e quando dovevano essere messi in moto occorreva controllare che fossero partiti “giusti” altrimenti, mettendo la manetta in avanti, la barca andava all’indietro! Inoltre essendo senza silenziatori facevano un rumore incredibile. Ogni manovra in porto era difficilissima vito che ogni volte che attaccavi la marcia la barca si muoveva a 12 nodi e quindi era tutto un attacca e stacca, ma Federigo era nel suo!
Federigo, notoriamente sordo, era al timone, che non cedeva mai a nessuno, quando ad un tratto e senza motivo apparente, impugnò la cornetta del VHF accanto a lui ed ascoltò attentamente, poi chiuse la comunicazione senza proferir parola e mi disse urlando per coprire il fragore dei motori: “Ora io esco dallo schieramento, tu, con calma, con molta calma”, strizzandomi l’occhio, ”avvisa le altre imbarcazioni che noi lasciamo lo schieramento e chiudi. Quando ti richiameranno per avere spiegazioni rispondi che un peschereccio a largo ha avvistato il disperso, ormai morto”. In mezzo a quel rumore frenetico, solo lui aveva sentito la chiamata di soccorso di un peschereccio che aveva fornito le coordinate del ritrovamento, ricordandomi, molti anni dopo, la mitica figura del marconista di Come il Mare. Fummo quindi i primi ad arrivare sul posto.
Così era Federigo.
Ma non è finita, perché mentre ci accingevamo a recuperare il corpo, circostanza sempre triste, ma con cui avevamo dimestichezza per analoghi interventi, entrambi facevamo parte del Consiglio della CRI, dall’imbarcazione dell’esercito giunse l’ordine che spettava loro recuperare il defunto essendo un loro commilitone. Misero in mare un piccolo gommone con quattro giovani marinai e con le pagaie si portarono vicino al corpo, impressionante per come era gonfio il torace e la testa rivoltata all’indietro. Ma i marinai, forse di leva, non avevano idea di come operare, e allora Federigo con il megafono li chiamò per dargli la rete, ma quando furono sotto bordo fu chiaro che non erano in grado di manovrarla e men che meno di utilizzarla, non avendola mai vista prima. A quel punto Federigo mi disse, come era solito fare lui con un gesto e un tono deciso: “Salta sul gommone” e mentre lo diceva mi precedette. Appena a bordo indicò il corpo e i marinai pagaiarono di buona lena e noi mettemmo delicatamente la salma nella rete. Tralascio i particolari da necroforo, per dire che Federigo aveva due scelte, consegnare la salma alla vedetta dell’esercito, che forse non avrebbe saputo cosa fare, o ordinare ai marinati di portarsi sotto bordo alla sua vedetta. E lui scelse la seconda opzione. Appena il parà fu a bordo, issato nella rete dai marinai di Federigo, mentre noi di sotto ci si assicurava che il corpo non urtasse la fiancata, e composto come spettava ad un militare e alle sue condizioni, partimmo verso il porto a moderata velocità, scortati da tutte le altre barche. Prima di entrare in porto Federigo accese la sirena, che con il suo suono lugubre si addiceva al momento e tutti coloro che erano sui moli si scoprirono il capo al passaggio del mesto corteo.
Impressa nella mia memoria è la regata del 13 luglio del 1980. Mi trovavo con la mia barca di nome Quelzalquoalt appena acquistata, un Sortilège di Doufour, nel canale della Palmaria, dove in tre coppie avevamo pernottato, in attesa dell’ora della passaggio delle imbarcazioni dal Tino, previsto poco prima delle 10,30, l’aria era calma, il mare calmo ed il sole stava scaldando l’atmosfera. Era quasi l’ora e con la sola randa di mezzana salpai l’ancora e mi diressi lungo il canale fra Palmaria e Porto Venere per avvicinarmi al Tino.
Ricordo che eravamo appena usciti dal Canale, quando sulla mia sinistra vidi una nave appoggio della MM, all’epoca sapevo il nome, oggi non lo ricordo, che veniva nella mia direzione, mi accingevo a darle la precedenza come nave impegnata in attività di sorveglianza, quando la mia amica Josephine Furrer, la figlia di Franz esclamò: “Luca guarda che bello!” seguì il suo sguardo girandomi sulla mia destra, verso Genova il sole era stato spento, le nuvole dal cielo al mare erano nere e minacciose e proprio nel mezzo c’era un buco rosso. Il mio primo pensiero, che tenni per me, fu “l’abbiamo in c….” Decisi che la nave avesse a fare quello che voleva, ma io dovevo mettere in sicurezza barca e “passeggeri”.
E venne notte, raffiche di vento che quasi a secco di vele ci fecero assumere 25 gradi di sbandamento sull’inclinometro, e un torrente d’acqua sembrava essersi posizionato sopra la nostra testa. L’acqua che raccoglie una vela non è facile da descrivere, ma se avete in mente una cascata siete vicini alla realtà. 45 minuti di lotta da solo, visto che i miei compagni e compagne si erano rifugiati da basso e si limitavano a fotografarmi sotto il diluvio. Non avevo il coraggio di strambare per cercare rifugio dietro al Tino, visto che, con la sola randa di mezzana al traverso, la barca era molto orziera e temevo che nella strambata avrei potuto perdere l’albero o scoppiare la vela. Decisi allora di fare una “strambata in prua” mandare al vento la barca che non chiedeva altro e poi, passato il letto del vento, puggiare e puggiare per rifugiarsi verso il Tino. Andò tutto bene, ma furono decine le barche, anche grossi motoscafi, i cui proprietari sorpresi e spaventati decisero di puntare sulla spiaggia, altri che furono sommersi da ettolitri di acqua di mare, altri che comunque subirono danni alle vele e, coloro, che ebbero il tempo di rifugiarsi in porto, nella foga di attraccare subirono danni nello scontro con altre barche e i moli di ormeggio.
Nel primo pomeriggio mentre si tornava a Viareggio da cui distavamo poche miglia, captai sul canale sedici una richiesta di soccorso e aumentati i giri motore per recarmi sul posto che risultava essere poco dopo Marina di Torre del Lago. Appena in vista riconobbi un kecth e dallo scafo giallo seppi che era il Delfino II, ma si trovava a forse venti metri dalla spiaggia, leggermente inclinato sulla dritta, a debita distanza verso il largo c’era l’Angelo Padre un grosso peschereccio della bella e numerosa flotta viareggina dell’epoca, che aveva calato in mare un gozzo e aveva portato una cima sulla prua del Delfino II da cui penzolava una inutile catena dell’ancora. Si portammo sotto l’Angelo Padre e prendemmo una cima da loro per partecipare al tiro alla fune per disincagliare il ketch. Tirammo per mezz’ora facendo entrambi fumate nere dai rispettivi tubi di scarico, il Delfino II era troppo vicino a riva per dare motore, la sua elica avrebbe toccato la sabbia. Non fu possibile disincagliarlo

e entrambi dovemmo rinunciare al soccorso, dopo che la CP ci informò che su loro richiesta un rimorchiatore del Neri da Livorno era in navigazione.
Stanchi e direi anche un pò snervati, l’equipaggio del Delfino mi era sembrato molto passivo nelle fasi del recupero ce ne andammo. Avevo contattato il ketch, mentre si tirava verso destra e verso sinistra per allentare la presa sulla chiglia, perché inferisse una vela in modo da fare coricare lo scafo e quindi liberare parzialmente la ciglia intera che lo teneva saldamente ancorato alla sabbia, ma la loro risposta mi fece capire perché ormeggiati per fare il bagno erano finiti sulla spiaggia e in quel modo!
Un ultimo episodio, rimasto scolpito nella memoria, riguarda un fatto che poteva diventare una tragedia: Scovenna, il Segretario storico del Club, mi aveva chiamato, tutto trafelato, perché un importantissimo giornalista straniero di una altolocata testata americana era arrivato in ritardo per colpa dell’aereo a Pisa e doveva essere imbarcato sulla barca giuria, chiedendomi di portarlo immediatamente a bordo. Io presi il mio gommone nuovo di pacca come il motore Johnson e caricata moglie, figlia e giornalista, mi precipitati fuori dal porto. Prima di fare qualunque scelta contattai la barca giuria per sapere se potevo passare sulla linea di partenza per portare il giornalista e, ottenuta una risposta positiva, a tutto gas mi portai verso il lato opposto della linea. Giunto circa a metà del settore della partenza, il motore nuovo e al massimo dei giri si spense e il gommone rimase in balia del mare. Cercai di far ripartire il motore, ma niente. Stavo considerando che al momento del passaggio, ormai imminente degli scafi, mi sarei gettato in mare con mia figlia per andare più a fondo possibile, quando un angelo bianco alla guida di un gommone della CP, che aveva le sembianze del Comandante, di poi Ammiraglio Capo delle Capitanerie, si affiancò senza fermarsi, un marinaio sveglio lanciò una cima che io legai al volo, giusto in tempo per vedere planare il suo e il mio gommone, mentre gli scafi offshore si avvicinavano a tutta velocità sulla linea di partenza in una nuvola di spruzzi che avrebbero reso impossibile il nostro avvistamento, cosa che sapevo già prima.
Mi fermo qui per carità di patria, felice di avere avuto tanti maestri fra cui tutti i marinai in pensione che allora erano numerosi, ed erano imbarcati sulle barche del Club, che mi hanno regalato tutto il loro sapere, acquisito in anni di navigazione a bordo delle barche viareggine e non solo; ricordo anche Tricciolo che poi era Vitaliano, il figlio della Bemi che vendeva la biancheria su via Ugo Foscolo angolo via Garibaldi, il responsabile della scuola di Vela e che mi aveva preso come suo aiutante; poi i soci fondatori, con quasi tutti ho avuto rapporti amichevoli, padri di miei coetanei, poi clienti ecc. anche se io quando ho cominciato a frequentare il Club nel 1959 avevo 12 anni e loro erano uomini fatti. Ricordo con particolare affetto l’Avvocato Marcello Luporini, poi diventato collega a cui ho sempre dato del Lei, che per un paio di estati mi volle come suo marinaio durante la crociera, a bordo del Pierrette II in cui portai anche la mia fidanzata; Acampora che mi vendette nel 1960 la mia prima barca Il Cavalluccio m,2.45 f.t., il dott. Santoro Ernesto che sapeva farsi volere bene da tutti.

Comunque l’ultima curiosità, che anch’io non so spiegarmi, é che io sono stato figlio di socio, fratello di socio e marito di socia, ma non sono mai stato socio.
Lunga, lunghissima vita al Club 12 luglio 2022
Luca Picchi